Diffusa e singolare è la leggenda vàjna – swàina (Villa). Una graziosa bambina in fasce piangeva frequentemente. La madre sua, perduta alfin la pazienza: và – le imperò – che ul diaul ut porta via!
E il diavolo infatti se la portò via, ma ebbe pietà dell’innocente bambina; e, invece di portarla nel suo regno di squallore e fra dannati, la condannò a vagare rotolando in fasce sin alla fine del mondo. E l’infelice bambina compie il suo destino piangendo e vagando, e può offendere i bambini che incontrasse di sera sul suo passaggio.
Diversa nelle circostanze è l’interpretazione della vaina a Montescheno. Narra la leggenda che una donna indispettita da una sua bambina in fasce che di continuo si lamentava, la gettasse dalla finestra della stanza imprecandole: và, e tuca pì n’ìn ciel n’ìn tera!
Così la povera creatura scacciata e maledetta dalla madre snaturata non ebbe più pace, e da secoli va errando ed emettendo i suoi flebili nèe….nèe. Nelle sue misteriose peregrinazioni se riuscisse a passare rotolando tra una gamba e l’altra di un fanciullo o di una fanciulla ne morirebbero.
La credenza ha il suo fondamento morale nell’impedire ai ragazzi di scostarsi di casa dopo l’Angelo della sera. A sostanza di questa leggenda la troviamo anche in altre vallate ossolane e specialmente in Val Vigezzo.
Una leggenda a fondo storico che ricorda le medievali competizioni fra i vicini e forensi è quella di Maiolo Tosi, che morì inviso alla comunità di Villa, mentre nei paesi limitrofi era chiamato “il santo”. Morto, non gli fu dato riposo nelle tombe della vecchia parrocchiale di San Bartolomeo, ma sepolto come un cane vicino ad una pianta in frazione Falghera. Neppur qui le aride ossa di Maiolo Tosi ebbero pase. I Villadossolesi speculando sulla fama di Tosi, da buon affaristi, vendettero per uno staio di fagioli le ossa a quei di Megolo che le accolsero in trionfo. Se non che il corpo di Maiolo Tosi, detto il santo, venuta la notte ritornò miracolosamente a Villa e dall’alto del “Sasso di Santa Maria” lancio l’invettiva:
Villa, villani,
ingrati come cani,
I vedì Tusi e Tusit,
Ma in sarì mai pi pòvar ni pi rik !
e tornò alla sua dimora ai piedi della pianta. E i villadossolesi per non sentirsi ogni notte stracciare i timpani dalla misteriosa invettiva didero alfin sepoltura religiosa al Tosi nelle tombe vicinali.
Nelle alpi di Sogno di Montescheno, poco lungi dai casolari di “Buccarèj”, esiste un cumulo di grossi massi, conosciuto dal popolo con il nome di Campanindi Pèdar, o Cà di spagnùn. Vuole la leggenda che nelle caverne e meadri formati da questi macini abitasse una masnada di ladri che depredavano le limitrofe popolazioni di armenti, denaro e fanciulle.
Eran costoro comandati da un capo, che a guisa dell’orientale Veglio della Montagna o Re degli Assassini, non usciva mai dalla strana e sicura dimora; e ogni volta che i ladri suoi dipendenti gli recavano il bottino, chiedeva : Cus i disan? – Is dispèran e i piangian, rispondevano – Ed egli: Cusì la và ben par nùi! – ed egli di botto : a sèm perdùi!
E il re dei ladri per placare l’ira divina ritenuta imminente, lasciò libere le ragazze rapite e provide a far distribuire ai poveri il frutto delle molte rapine; ma fu tempo perduto. Uno squasso orribile sconvolse la grotta in modo da non lasciar più via d’uscita ai predoni. E questi, dopo inutili sforzi per liberarsi di trappola, continuarono per qualche giorno ad invocare :: Aiùt, aiùt…..avdàrem una mina ad sold…. Libèrèm! – Ma nessuno ebbe pietà della loro sorte e tutti perirono di disperazione e di fame. La fantasia popolare ricorda che nei giorni forieri di cattivo tempo si sente tuttora l’angosciosa supplica.
Questa leggenda ha un fondamento storico e ricorda le gesta di una famiglia di banditi detta dei Bravi, già residente a Progno Sopra. Eran costoro chiamati Spagnùi, spagnoli, sinonimo nella nostra Valle di Ladroni.
Una leggenda di sapore storico che ricorda le frequenti incursioni di Vallesani in Valle ANtrona fu raccolta da Giulio Bazzetta: è la leggenda della vecchia d’Andolla.
“Una masnada di Vallesani, superando il passo d’Andolla, si era raccolta nel sottostante alpe, attendendo la notte, per poi piombare improvvisamente su Antronapiana. Una vecchietta, che causualmente si trovava lassù, capitò nelle mani di quei predoni, che la volevan morta per tema che non corresse a dar l’allarme. Tanto seppe fare e più dire la tapina, da riuscire a salvar la pelle, con patto però con i più sacrosanti giuramenti si obbligasse di non palesare ad alcuno la presenza dei masnadieri sulla montagna.
Era giorno di festa e la vecchia giungendo in paese, trovò tutti a vespro. Che fece essa, che se le importava salvar l’anima, stava pur a cuore rendere avvertiti del pericolo i suoi? Diede mano alla conocchia e al fuso e portatasi alla porta della chiesa, attesa l’usciere dei devoti, ed allora a filare, accompagnando il girellare del fuso col seguente rustico metro nel dialetto del paese:
Ròca e fijus
I prèi d’Anola in tita lis;
Fijus e ròca,
La po’ di angòta la mi bòca !
Traduzione letterale : Rocca e fuso le pietre d’Andolla son tutta luce; fuso e rocca, non può dir altro la mia nbocca – e con questi detti la vecchia alludeva al luccicar delle armi vallesane in prossimità delle alpi d’Andolla.
Strabiliava la gente facendo ressa d’intorno alla vecchia e chiedendole il perché di sì strano parlare; ma essa impassibile e senza aggiungere altro, seguitava la nenia filando.
Siccome la comare godeva fama di volpe vecchia, gli anziani s’impensierirono cercando di scoprire la verità “sotto il velame delli versi strani”.Chi di gallina nasce convien che razzoli, dice il proverbio, tant’è vero che non sprecarono gran tempo per indovinare l’enigma, e tosto dato mano alle armi, corsero ad occupare la stretta presso l’alpe Cavalli, per dove passar dovevano necessariamente i predoni. A notte fatta, scesero essi dalla montagna, ma trovarono tra i denti del pan pepato da manducare, chè scornati e battuti, ebbero a mercè riguadagnare la vetta tornandosene d’ond’erano venuti, maledicendo alla vecchia d’Andolla.
Tra i comuni di Montescheno e Viganella si litigò a lungo per il possesso di alcuni alpeggi nelle vicinanze di Ogaggia. Mancando documenti scritti, si era ricorso d’ambe le parti alle testimonianze giurate delle persone più anziane.
Ricorda la tradizione che un tal Lorenzo Vescia di Zonca trovò uno stratagemma, o meglio, usò una restrizione mentale illecita per far aggiudicare a Montescheno il territorio prima ritenuto promiscuo alle due comunità. Invitato a giurare, l’astuto vecchio, prima di lasciare Zonca, si mise segretamente nelle scarpe un pugno di terra fina; poi si portò sul luogo in contestazione, e davanti al podestà di Domodossola: giùri: – disse – giùri sui Vangeli, che la tèra ca gò sut i pèi l’è du taratòri da Montaschej; e il territorio fu senz’altro aggiudicato dal pretore di Montescheno. La tradizione vuole che per questo spergiuro il Vescia fosse stato colpito dalla divina giustizia. Comunque, la famiglia Vescia, la più ricca e potente della Valle Introna, dopo questo fatto andò a finire in miseria.
E’ poi tradizione a Viganella ul condìòr ; condimento per eccellenza, consistente in un osso prodigioso che da tempo antichissimo vien tramandato misteriosamente da famiglia in famiglia e serve per condimento dei cibi. Manco a dirlo che mai alcuno vide quest’osso, e solo dagli effetti se ne deduce la presenza; perché è fama che durante la pestilenza del 1630 le famiglie che ebbero la ventura di esserne in possesso furono preservate o guarirono tutte dal mal dul cuntac, peste.
Intorno all’origine del condor abbiamo pure un’altra versione satirica. Una sera pleniluni un pastore tornando dal pascolo abbeverava una grossa mucca ad una fontana a sera di Rivera. Il disco lunare riflesso nella vasca ad un tratto veniva velato da una nube. L’ingenuo pastore non sapendosi dar ragione del fenomeno, ebbe la persuasione che la luna fosse stata bevuta dalla mucca!? Ul vakòn la mangiòò u lùnòn! Gridò a perdifiato; e gli accorsi della vicina frazione, riconosciuto il prodigio, per tema che la luna non avesse a soffocare, uccisero la innocente bestia e… liberarono la luna, che infatti poco dopo tornò a risplendere nel firmamento !
La mucca uccisa fu ritenuta sacra; la carne distribuita ad ogni singola famiglia; e un grosso osso femorale venne conservato per essere usato quale preservativo delle pestilenze.